Hanno fatto la giornalata nei giornali

“Hanno fatto la giornalata nei giornali”. Antonio Inoki era (anche) così. Così, senza troppi giri di parole, mi apostrofò una sera, riferendosi a un articolo che scrissi sulla mancata pulizia dei cimiteri, “costringendolo” a un lavoro extra. Ma alla fine non mi serbava rancore, non era certo il tipo o, per quanto lo conoscessi, questo è quello che sapevo di lui. Il suo saluto non mancava mai, di giorno e di notte, al mattino a lavoro, a sera in via delle Terme. Avventure notturne, ricordi di gioventù e non solo, frasi stampate e risate a crepapelle bagnate di vino, storie e mitologie tutte senesi.

I ricordi sfumano in quel buio, in quelle lunghe serate; rimane a volte solo un’impressione di quello che era, di quello che è stato, di quello che non sarà quella Siena. E quello che mi rimane è cantare sempre l’inno alla vita, che lui mi ha trasmesso come altri e di cui, purtroppo, ci scordiamo troppo spesso e ci ricordiamo altrettanto troppo spesso solo in questi tristi momenti.

Ps: questo blog sta diventando solo, purtroppo, un ricordo del tempo che fu. Mi prometto di impegnarmi ad aggiornarlo con altro, proprio perché dobbiamo inneggiare sempre alla vita.

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Quel cappotto frusciante nella notte

Prendo in prestito alcune parole egregiamente vergate su Facebook da Michele Masotti (non per niente autore di una trilogia che consiglio vivamente di avere nella biblioteca di casa) per ricordare, già a dieci anni dalla dipartita, Roby Ricci. Quel cappotto frusciante nella notte. Non mi voglio unire alla pletora, che troppo spesso si compone, di coloro “che lo conoscevano e come lo conoscevano”. Come ho avuto modo di scrivere altre volte, la parola “amicizia” sarebbe abusata con me.

Diciamo che sono stato un pellegrino, uno dei tantissimi, nel suo percorso di vita. Incontri, più o meno casuali, nelle serate più svariate. Quel cappotto frusciante nella notte, però, in via di Città: un’immagine perfetta perchè descrive lui, che, a caso, ma forse no, incontravi nelle ore notturne e nei giorni più disparati, pronto a descriverti con gesti fluttuanti e con la voce abbozzata di note, le sue e anche le tue dinamiche di quel percorso.

Certo, mi ricordo di concerti e concertini. Però l’immagine che mi è rimasta di più è proprio questa: l’incontro casuale per le buie vie del centro storico. A disquisire di musica (lui) e di letture (io), ma anche del niente o dell’effimero, del calcio, del basket, della Siena che cambia, ma alla fine è giusto che cambi e che non rimanga chiusa fra le sue mura.

E di gioia di vivere. Quella, sempre.

Viva Roby.

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Un futuro che interessa a pochi?

Sono distratto e da tempo (da diversi anni, ormai) mi occupo molto meno delle questioni relative alla professione giornalistica. Un po’ perché non credo più a certe situazioni, un po’ perché ho altro a cui pensare, un po’ perché, sinceramente, la spinta a una riflessione seria sui giornalisti e sul giornalismo dovrebbe venire da chi è più giovane di me, magari con il contributo di chi è più anziano.

I primi hanno entusiasmo, voglia e freschezza; i secondi quei privilegi mancati per anni (mi verrebbe da dire secoli…) alla mia generazione. Che si facciano avanti, dunque. Noi (intesi come quelli della mia generazione) possiamo certo dare un contributo: per esempio di quanto abbiamo battagliato fra precarietà e lavoro (più o meno) sicuro o magari semplicemente dando una nostra visione del presente o del passato (quando, ad esempio, insieme ad altri provammo a far capire l’evoluzione della professione, nel silenzio quasi totale anche di chi oggi si “scandalizza”).

Questa lunga premessa solo per dire quanto rimanga basito (qui) di quella che (cito) l’interpretazione dell’Ordine dei Giornalisti rispetto all’accesso alla professione. Un allargamento, come spiega in maniera molto migliore e più approfondita Stefano Tesi nel suo blog (qui), che solleva diversi e tanti dubbi, corredati da diversi e tanti punti interrogativi.

Sicuramente l’interpretazione di cui sopra sarà la più giusta e quella personale la più sbagliata. Sarebbe utile, però, che gli Ordini regionali (peraltro investiti di un ruolo fondamentale in questo rinnovato processo e qui c’è un altro dubbio: saranno in grado – come personale – di farlo?) o le associazioni territoriali ci spiegassero (di più e meglio) cosa significhi detta interpretazione. Richiesta che, come altre, temo rimarrà solo su qualche blog senza grandi accoglimenti. E torniamo alla premessa di cui sopra. Alla fine il futuro sembra interessare a pochi.

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Lockdown

Mi guardo indietro e vedo che sono passati già tre anni. Oltre mille giorni da quello in cui, attaccati (come non mai, peraltro) alle tv nazionali pendevamo (si fa per dire) dalle labbra del buon Giuseppe Conte per capire cosa diamine stesse accadendo.

Ci rendevamo poco conto allora, ancora, forse, ci rendiamo poco conto. Almeno personalmente. Non entro nel merito della diatriba più o meno complottistica dei vaccini, delle chiusure, delle riaperture. Non è questa la sede e ci sono valanghe di sproloqui a cui credere (o meno).

Credo però che il Covid non ci abbia cambiato. Di certo non lo ha fatto in meglio, nonostante gli slogan sparati per farci coraggio: dal quasi puerile “andrà tutto bene”, come se fosse dipeso da una nostra forza di volontà, per conclduere con il patetico “ne usciremo migliori”.

Ne siamo usciti, più o meno, ma non è andato tutto bene e non siamo migliori di prima. Forse qualche abitudine di igiene in più, una passata di gel prima di entrare o dopo essere usciti dall’autogrill, una mezza mascherina usata in tasca prima di entrare all’ospedale o dal medico di famiglia.

In fondo, però, non siamo nemmeno peggiori. O, meglio, peggiori lo siamo, in linea generale, ma il percorso sarebbe stato ugualmente questo. Forse è nella

Personalmente nel lockdown ho vissuto in stile montagne russe. Alcune cose belle, altre molto meno. A volte ripenso a quello che abbiamo attraversato, di certo ci sarà da raccontare parecchio in futuro e a volte, come dicevo, non pare neanche vero. Ancora i ricordi sono forse troppo recenti e nitidi, non hanno attraversato il giusto momento di elaborazione.

Fra le esperienze di quel periodo, il mio personale “Visioni della città”: qualche affezionato fra i miei quindici lettori se lo ricorderà. Potendo andare in giro più o meno liberamente, mi inventai qualche ripresa in diretta social (poi scaricabile su YouTube) dalle zone di Siena, centro storico o quartieri. Un piccolo-piccolissimo contributo per la ricostruzione di quello che accadde (questo uno dei video a mio personale giudizio più “suggestivi”).

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Dieci anni

Dieci anni. Non mi pare neppure vero di come sia passato così tanto tempo. Chi mi conosce per davvero sa che per anni (almeno due) ho (con fatica, vista la mia professione) scansato l’argomento. Proprio non ne volevo parlare. Non avevo probabilmente la forza di affrontarlo. Cosa che anche oggi, in molti casi, continuo a fare.

Non voglio entrare qui nelle diatribe e nelle polemiche. In questi anni ho scritto rispettando i fatti, come (credo) ogni giornalista dovrebbe fare. Mi basta questo, qui e oggi.

Dentro di me c’è sempre quella notte, perché credo che certi amari ricordi non si cancelleranno mai. Si elaborano, forse si superano, perfino si assorbono. Ho piccoli e grandi flash. Immagini. Fotografie. Soprattutto ho sensazioni e sentimenti. Non ho ricordi lucidi e continuativi ed anche questo è un preciso segnale.

Ricordo i brividi. Il dramma e le lacrime che proprio non uscivano. Il tentativo (vano) di trovare una spiegazione e si far passare più velocemente possibile un tempo che non passava, come se lo scorrere delle ore e dei giorni potesse cancellare il pianto soffocato di quella notte. Cercavo la routine, per giorni trovavo il fiato sospeso. E soffocato nelle mie consuete chiusure gestuali e corporali, di sguardi e di parole.

Ricordo frammentato. Ma ricordo. Vuoti di continuità, ma pieni di angoscia. Anche di qualche risatina di troppo, sotto l’arco dei Rossi. Magari di persone che qualche tempo dopo si sono permessi di giudicare, di dire, di urlare, di sentenziare, di vergare verità sui social. Non è questo importante adesso.

Importante è il ricordo. L’esperienza fatta insieme, senza l’ipocrisia di dichiarazioni di amicizie post, ma, quello sì, di stima e conoscenza, professionale e non. E più scrivo e più la memoria torna, quella bella, quella che, davvero, cancella il buio. Nella speranza che, dovunque tu sia, stia facendo tante risate con un bicchiere di buon vino, un quadro e un libro accanto.

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Nemmeno un filo d’erba

Una delle cose che più mi colpì nella mia “visita” (difficile definirla così) al campo di Birkenau- Auschwitz fu la totale assenza di erba in tutta la zona. E non dipendeva dal freddo. Lo so, è un particolare. Un piccolo particolare.

La dimostrazione, almeno per me, dell’assenza di vita. Della totale assenza di vita, in un luogo che è stato di morte, di sofferenza.

Spesso, in questa giornata, si cade nella retorica o nella melassa. Nonostante questo “ricorrenze” (anche su questo termine ho qualche dubbio) sono utili. Perché a ottanta anni dagli eventi si rischia di perderla quella memoria, di incappare in pericolosi revisionismi.

Nemmeno un filo d’erba. Il segnale, forse, che anche la natura si è piegata alla morte, come mai avviene. Il segnale di come anche la terra, calpestata dalla sofferenza, si è rifiutata di risorgere, costretta a testimoniare la violenza inaudita.

Il mio consiglio, come ogni anno, è di fare quel viaggio. Di spendere del tempo per vederli quei luoghi. Per toccare con mano quella assenza di vita.

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Sulle file e sugli idioti, freddo compreso

Passano gli anni e penso si acuiscano difetti, financo paranoie. Oppure, semplicemente, la soglia della tolleranza si abbassa, almeno per alcune cose. Mentre per altre è l’esperienza o riuscire dare priorità agli aspetti veramente importanti (anche di fronte alle drammaticità quotidiane) che la fa alzare.

Di certo ho notato che negli ultimi tempi, se ho imparato a smussare alcuni angoli spigolosissimi del mio caratteraccio, Altri, invece, si sono per l’appunto acuiti.

Come gli “anzianotti” che si rispettano, il freddo. Già mal sopportato da giovane, specie quando giocavo a calcio (preferivo di gran lunga la pioggia), negli ultimi tempi non riesco proprio a trattenermi dalle smorfie vagamente rugose quando la temperatura si abbassa.

Sono altre però, le vere spigolosità. Una: le file. Proprio non sopporto la perdita di tempo da affrontare quando si attende, uno dietro l’altro, qualcosa. Qualsiasi cosa, s’intende. Stare a guardare il cielo, le nuvole, l’orologio, in attesa di fare un metro o due. E’ una cosa che proprio non riesce a entrarmi nella testa, salvo poi, ovviamente, perdere tempo in qualsiasi altro cazzeggio della vita.

L’apice dell’insuccesso sociale, però, è per me l’idiozia. In tutte le sue forme, meno che, forse, quella perfino bonaria espressa da Dostoevskij. Non riuscire a comprendere l’ovvietà, la logicità, perfino la semplicità di un discorso, di un’idea, di una proposta. E’ una cosa che non riesco a sopportare, che (ancora) mi fa partire l’embolo caratteriale che ancora non ho smussato, anzi che forse ho aumentato nel tempo.

Forse e soprattutto quando ritengo l’ovvietà una cosa talmente palese, per l’appunto, che sia impossibile non comprenderla. O, almeno, provare a analizzarla. L’idiozia la definisco così: non arrivarci. Nemmeno vicino, ecco.

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Culturale (o sospensione di’ ricreativo)

Dopo un po’ di tempo per questioni varie, sono tornato a passare una domenica “culturale” (sconiosciute, ahimè, fino a qualche mese fa per impegni lavorativi) in alcuni spazi cittadini della città di Siena. Non sono né un critico né un esperto d’arte, quindi possono solo narrare sensazioni e raccontare piccole-grandi esperienze.

La prima è quella del Buongoverno. Ho avuto la fortuna di poter salire sui “soppalchi” predisposti per la ripulitura dell’Allegoria di Ambrogio Lorenzetti (“Guardami negli occhi”) e non scopro niente se dico che questa straordinaria opportunità penso mi rimarrà in testa per tanto tempo.

Mi sono state svelate tante piccole particolarità del ciclo che, ignorantemente, non conoscevo; ma al di là di quello che si può comunque riuscire a studiare sui libri, resta il fascino di qualcosa che puoi quasi toccare con mano e quasi mangiare con gli occhi. Senza contare quei piccoli particolari che senza uno sguardo ravvicinato non riusciresti a cogliere e che lo stesso artista, probabilmente, si è divertito a nascondere nelle sue pennellate, come ad esempio quel drappo che cela i tessuti nella bottega del venditore di lana, in cui solo da quella distanza si scorge la cucitura.

Insomma, sensazioni incredibili, in una vista mai banale e perfino sorprendente.

Seconda parte dedicata al Santa Maria della Scala, con la mostra di Marco Lodola dal titolo “Dame, cavalieri e nobili destrieri e Vivian Maier con “Vivian Maier, The Self-Portrait and its Double”.

Anche in questo caso posso sinceramente dire poco dal punto di vista artistico, sarebbe estremamente limitante per chi legge e anche per chi scrive. Ho colto quel pizzico di follia di enmtrambe gli artisti, pur in generi così differenti e in spazi altrettanto diversi. Quando entro dentro al Santa Maria (e non da adesso) ho sempre la sensazione di fare un ingresso in un mondo incredibile, in cui passato, presente e futuro si fondono in storie diverse eppure così uguali.

Unica chiosa che posso fare: il recupero dello spazio dei Magazzini della Corticella. da vedere assolutamente, anche vuoti.

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Parte di una piccola-grande storia

Il “Corriere di Siena” (se preferite “Corriere dell’Umbria”) ha cambiato proprietà e direzione. Nell’edizione dello scorso 2 gennaio, quella in cui viene annunciato il cambiamento storico, potrete leggere la storia di questo giornale fin dalla metà degli anni Ottanta, con tutte le sue sfaccettature e le pagine dei suoi tanti racconti.

Nel lontano 1995, dopo le primissime esperienze giornalistiche al settimanale “Il Giovedì” (ricordo ancora il primo articolo che Stefano Bisi mi “commissionò” sulla nuova moda del noleggio dei cellulari – sembra passato davvero un secolo), mi affacciai umilmente nella redazione del nasciuturo “Corriere di Siena”: ero appena iscritto all’Università, ero un ragazzo anche timido e timoroso, con già però amore e passione. Come ho scritto tante volte c’è qualcuno che da bambino sogna di fare il calciatore o il pompiere, io sognavo di scrivere, di fare il giornalista. Ed entrare in quel sogno per me era già moltissimo.

Ricordo ancora i quadernoni che racchiudevano i font e i menabò delle pagine (a parlarne adesso sembra di sfogliare un trattato di archeologia) e da lì cominciò il mio percorso giornalistico, fra alti e bassi, fra lezioni di vita e di professione. Ho conosciuto tantissimi professionisti (il primo fra tutti l’ho appena citato) e tantissimi maestri, ha scritto tantissimo, sono riuscito a fare qualche articolo di valore (non mi azzardo a dire “scoop”, sono gli altri – i lettori, in particolare – a doverlo dire), sono inciampato in qualche errore (quelli sì che ci sono stati) e qualche “buco” (leggasi: notizia data dalla concorrenza e non da me).

Non sto qui a ripercorrere tutte le tappe di questo percorso lungo, sarebbe troppo autocelebrativo. Dico solo che dal 1995 al 2021 ho fatto parte di quella storia, ufficialmente da collaboratore. Chi quella storia la conosce da vicino, sa di certo che definire me (e tanti altri, qualcuno ahimè non citato nell’articolo che pubblico) semplice “collaboratore” è quantomeno riduttivo, con tutti i miei e nostri difetti.

Una piccola (mia), ma grande (quella del “Corriere”) storia. Di cui resto orgoglioso.

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Difendere la professione

Prendo spunto dall’ottimo blog del collega Stefano Tesi (qui), da sempre attento osservatore delle questioni relative alla professione, molto più puntuale del sottoscritto anche su aspetti non particolarmente semplici da decifrare.

Di fatto l’Ordine dei Giornalisti ha varato una nuova mini riforma per l’accesso alla professione (leggi qui). Come sottolinea Tesi, però, il problema non è tanto (o non solo) una riforma, più o meno “mini” che sia. Il problema è sempre il solito: garantire l’accesso alla professione a chi la professione la fa per davvero.

Il giornalismo è cambiato nei secoli e negli anni, ma, alla fine, come da miei studi universitari, non è mai (per ora) sparito. perché? Perché della figura del “mediatore”, di colui che racconta, che trasla un fatto in una notizia c’è sempre bisogno. Anche (o forse più) in un’epoca in cui siamo bombardati di notizie.

Il nodo da sciogliere è come lo fa, più che chi, quando. Seguendo cioè quelle regole condivise di dentologia ed etica che ci sono e sono “buone”. Un po’ come la politica: non è il problema della “politica”, ma della “malapolitica”: così il giornalismo. Blogger, youtuber e quant’altro che nascono adesso non sono la criticità. Il problema è la definizione di giornalista, di chi lo fa per professione e quindi deve essere obbligato a seguire precise regole: che,attenzione, non sono norme imbavaglianti e non tutelano solo e soltanto lo stesso giornalista, ma tutelano chi legge-guarda-ascolta. Se leggo-guardo-ascolto una persona che fa questo di mestiere ho una (perlomeno parziale) garanzia che rispetti la verità dei fatti.

Un po’ come avviene per altre professioni: non si va da un conoscente per farsi seguire in tribunale, si va da un avvocato. Non si va da un amico per un’operazione al cuore, si va da un cardiochirurgo. E più le cose si complicano, più si va dai proffesionisti.

Ecco, io credo che l’Ordine dei Giornalisti dovrebbe essere maggiormente impegnato su questo aspetto: difendere la professione, difendere la professionalità. Nei modi più incisivi possibili. Aprire l’Albo dei professionisti in maniera troppo generica, per poi non avere la capacità di effettuare un reale controllo su chi fa cosa a cosa potrà portare, se non a una definizione troppo ampia della professione e quindi a una sua (progressiva) sparizione?

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