Dibattere di pancia

Come al solito il Paese (che non è Siena che è paese, ma comunque è nel Paese, quindi non è impermeabile a quello che succede) agisce e dibatte di pancia e di stomaco, by-passando il ragionamento e quindi l’organo ad esso preposto, cioè il cervello. L’ultima delle questioni è Totò Riina, il “capo dei capi”, già “scarcerato”, secondo i tuttologi del web, dalla Cassazione, perchè in fin di vita. Nessuno mette in dubbio che “Totò U’ Curtu” sia stato uno dei criminali più efferati della storia italiana, ma i criminali non si combattono di pancia, bensì con la forza della legalità. Cioè delle norme, anche della Costituzione. Che ci sono, basta leggerle (e farle rispettare). Ma questo vale in ogni senso. Riina è un criminale, che passi tutta la sua vita in carcere. Ma a tutti, lui compreso, la Costituzione garantisce una fine dignitosa. Che non significa una morte nella spiaggia dei Caraibi, come pure una villeggiatura a casa prima del tempo. Come non significa farlo uscire prima del tempo. Cosa che, peraltro, la Cassazione non ha detto. Da qui ad assolvere l’Italia da tutte le magagne di una giustizia non funziona, di allargare il discorso al povero carcerato che magariharubatounamelaenonpuo’uscire, financo ad arrivare a Renzi ce ne corre. E parecchio. Per cui riprendo quello che ha detto Enrico Mentana, che mi pare riassuma benissimo la situazione. “Per essere molto chiari: potremmo passare molto tempo a raccontarci cosa meriterebbe di orribile Totò Riina per tutto quello che ha fatto e deciso da capo di Cosa Nostra. Potremmo evocare tutte le morti che ha provocato, tutte le vite che ha segnato, tutto il male che ha portato alla Sicilia e all’Italia. Ma, appunto, siamo in Italia, uno stato di diritto, quello in cui i cittadini magari odiano i politici ma amano tantissimo la Costituzione. E quella Costituzione parla chiaro, e ci ricorda quello che dovremmo sapere già da soli, che il diritto non è vendicativo, ma severo. E l’articolo 27 ci spiega che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Perfino Totò Riina, che ha fatto sciogliere bambini nell’acido, che ha fatto saltare in aria con uomini e donne della scorta Falcone, e sua moglie, e Borsellino, che ha fatto uccidere il generale Dalla Chiesa e sua moglie, e mille altri orrori, perfino questa impersonificazione del male ha diritto al rispetto delle leggi. Ma senza sconti, senza scarcerazioni o domiciliari. Senza furbizie. Con la forza del diritto. Come ogni ergastolano di cui è possibile vedere il vero approssimarsi della fine, si prepari per allora il suo trasferimento presso i suoi familiari. Ma fino a quel momento non è nemmeno da mettere in discussione la prosecuzione del 41 bis. Per rispetto di chi è caduto, di chi lo ha combattuto, e di tutti noi. La nostra forza è la legge, non qualche sgangherata riedizione in chiave elettoralistica del codice di Hammurabi”. 

Sull’argomento utile leggere anche cosa abbia detto, per davvero, la Cassazione (leggi qui). Sullo stesso argomento utile (benchè faticoso, lo capisco) anche questo.

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3 risposte a Dibattere di pancia

  1. michelepinassi ha detto:

    Dove era lo “Stato di diritto” quando Welby chiedeva di poter morire in modo, appunto, dignitoso ? O per tutti gli altri malati di SLA o, comunque, terminali che chiedevano semplicemente una fine dignitosa alla loro vita ?

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  2. Simone Poli ha detto:

    Caro Lorenzini

    la facoltà di distinguere ci permette una lucidità che non ha prezzi.

    E’ una capacità che non si può comprare : ce la dobbiamo meritare, conquistare.
    Spesso risulta indipendente dal talento : più sudore che ispirazione.

    La distinzione (e tutta quell’analisi che ci sta dietro) ha dunque una caratteristica egualitaria.
    E’ il risultato di un esercizio, di un’ allenamento, di un lavoro su se stessi (specie quando ci assale la pigrizia e l’approssimazione).
    La soglia da superare è sempre il pregiudizio…

    La ringrazio quindi per il suo sforzo costante, anche ironico (un esempio : “ci sono più correnti che iscritti”) , ma c’è una nube orribile su di noi e quello che vedo comincia seriamente a preoccuparmi.

    Quello che vedo “dalla mia parte” per intenderci.

    Quando la prima ministra May si dichiara pronta a stracciare le leggi che tutelano i diritti umani (che fanno si dimettono dall’ONU ? ) ; quando il segretario di stato americano afferma senza essere smentito che la loro sicurezza viene prima dei diritti umani ; quando la Cina e la Russia diventano -ipso facto- un modello da seguire ; quando ha poco senso (visto il contesto) fare l’osservatore neutrale ma acquista molto senso iniziare un’inedita militanza su questa frontiera dei diritti umani : ebbene rimane comunque una distinzione.

    Bene, benissimo i diritti umani : ma te li devi meritare.

    Cercherò di spiegare questa affermazione con un esempio che parte da un’ esperienza personale. Da una storia vissuta con convinzioni mutate nel tempo.

    Mi perdonerà l’estrema sintesi e la rinuncia ad alcuni dettagli paradossali (incontrati nel dibattito sindacale).

    Inizio del nuovo millennio.
    Gli enti locali hanno un nuovo contratto.
    Viene introdotta la retribuzione differenziata per meriti e per obiettivi (produttività), così come per la carriera (progressioni).
    Spirito e lettera coincidono.

    Al Comune di Siena però si vuole continuare ad assimilare l’anzianità con il nuovo concetto di “professionalità acquisita”.

    L’anzianità è il tempo che passa, la professionalità acquisita può e deve essere misurata.

    Assemblee sindacali.
    Rsu.
    Insomma le sedi deputate dove non ho mai mancato di esprimere e argomentare il mio punto di vista.

    Alla fine risulterò l’unico voto contrario palese (non è uno scherzo).

    Ero convinto infatti che i dirigenti dovessero essere responsabilizzati sui risultati finali.
    Complessivamente.
    Partendo proprio dal rapporto iniziale e reale costituito da risorse umane e risorse finanziarie: il dirigente non può promettere miracoli.
    Giusti gli incentivi misurabili , giusta la dotazione di strumenti premianti comunque discrezionali.

    L’anzianità invece era un criterio oggettivo, comodo, privo di tensioni interne, cooperativo.
    Non mi interessava la competitività interna ; dico di più : l’anzianità mi faceva simpatia, girava come le canne. Toccava a tutti.

    Io non disconoscevo l’anzianità come un senso alto della comunità vissuta (nella teoria).
    Io,semplicemente, non la consideravo come una cosa scontata, come una stima automatica.

    C’è anzianità e anzianità : è necessario distinguere.

    Se sei menefreghista e anziano, peggio.
    Se sei un passante, tecnicamente uno che scarica sugli altri , peggio.
    Se non hai mai imparato ad organizzarti e tanto meno te ne è importato qualcosa, peggio.

    Adesso ho attenuato questa convinzione sul merito (se vedo e capisco che ti impegni, che ce la metti tutta – hai il mio rispetto).

    Forse ho cambiato idea.
    Sono arrivato a pensare che non è necessario differenziare gli stipendi in base alle capacità, è giusto farlo soltanto in base alle responsabilità -conservando un criterio oggettivo-.

    Quello che si deve fare dunque è differenziare e distinguere per un merito soltanto.
    Se uno merita di essere licenziato deve essere licenziato.

    Se uno ha reiterato un comportamento grave, gravissimo : dev’essere licenziato.
    Se uno ha addirittura rivendicato e organizzato consapevolmente un’azione dolosa tale da procurare danni irrimediabili (vita, patrimonio, credibilità, sicurezza collettiva) : dev’essere licenziato.

    Quando uno è stato condannato con regolare processo.
    E come in questo caso non ha dato alcun segno di collaborazione o di riflessione sul proprio operato.
    Se rimanendo il capo dei capi non solo non ha cambiato idea ma anzi minaccia Don Ciotti (notizia recente).
    Se proprio non cambia idea (mentre io ci provo a spiegare come e perché l’ho cambiata): beh così, uno si licenzia da solo.

    Ecco : si può (si deve) licenziare (chi se lo merita).
    Cioè : si può trattenere in carcere chi ha fatto la scelta di rimanerci.

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