Lunedì fra fango e polvere (e tre ps)

Il lunedì successivo alla due giorni di “Strade Bianche ” e “Gran Fondo” mi dà un piacere assurdo provare a passare al mattino per le vie del centro storico di Siena. Possibilmente in quelle ore in cui la città si stiracchia anocra, sbadiglia come dopo un week end festaiolo, consapevole di aver vissuto ore di brillantezza e di dover affrontare una nuova settimana lavorativa.

Così fra odore di paste e caffè per le vie del centro capita di incorciare, quasi come fossero animali mattutini pronti a sfuggire al predatore, naviganti in silenzio fra le lastre, i visi di coloro che la “Gran Fondo” l’hanno fatta per davvero. Li riconosci certo dal loro trascinare gli strumenti, ovvero le biciclette, della loro impresa: spesso ancora polverosi e fangosi, trasformati loro stessi in trofeo, non ostentati, ma neppure puliti, come a testimoniare che quella polvere e quel fango sono stati conquistati, sofferti, sono la dimostrazione dell’impresa. Impresa che vogliono riportare a casa con qualcosa di concreto: oltre alla medaglia, oltre al ricordo indelebile, forse anche quella polvere, quel fango, da tenere lì, attaccati alle bici il più possibile, fino a quando lo scorrere del tempo e la necessaria pulizia li faranno scivolare via.

E’ bello osservarli sbucare da via Cecco Angiolieri, da piazza Tolomei, da qualche portone per il Corso. Sorridenti, fatica ormai smaltita, magari grazie a qualche picio masticato la sera prima, quando si può dare sfogo alle proprie voglie culinarie, peerché la corsa è andata, è passata, è fatta. Si gustano l’ultimo miglio a Siena, in centro, prima del ritorno alla routine di casa, di lavoro, di famiglia. E’ l’ultima fotografia anche per noi senesi, in vista del prossimo anno.

Ps uno: qualcuno se ne faccia una ragione. Nonostante tutto Siena è capitale del ciclismo. Pogacar alla fine della corsa ha detto: “Non mi sono mai sentito solo. Mai vista tanta gente sulle strade in Italia…”. Le immagini a Colle Pinzuto, alle Tolfe sono la migliore risposta a chi ha vergato impropreri sui social.

Ps due: vorrei segnalare che, personalmente, domenica mattina sono andato senza problemi in macchina da San Prospero alla piscina Acquacalda (e ritorno) e a pranzo sono addirittura arruvato a Vagliali, sempre senza problemi.

Ps tre: leggete la spassosa ricostruzione su Facebook di Giampiero Cito.

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Nella polvere e nel fango

Questa volta lo scrivo prima. Le “Strade Bianche” sono qualcosa di incredibile. Di unico. Un’unione di agonismo, valori, sport, cultura, paesaggi. Sarà polvere (poca) e fango (tanto), sarà poesia, sarà tutto quello che può trasmettere una competizione di questo tipo.

In una parola: emozione. Pratico pochissimo la bicicletta, sono una persona che, per quanto possibile, prova a fare il maggior numero di esperienze, soprattutto quelle nei dintorni e quindi mi sono cimentato un paio di volte con l?Eroica, altra iniziative incredibile di queste parti, non mi sono mai azzardato neppure ad allenarmi per pensare di fare questi percorsi (ovviamente la domenica, nella “Gran fondo” amatoriale, che insomma prorprio da semplici amatori non è…). Innegabile però anche per un “profano”: da giorni si repira qualcosa di diverso a Siena e, pioggia o vento, sono ore tutte da assaporare: per le strade, per le vie del centro.

Per regalare un applauso a questi eroi moderni che si arrampicano sullo sterrato e sulle lastre, che spingono i polpacci sui pedali per macinare metro dopo metro fra campagne e monumenti, tendendo i muscoli per arrivare, a prescindere dal tempo impiegato, sotto la Torre. C’è anche un pizzico di invidia: conosco l’emozione di tagliare un traguardo, al di là del cronometro, dopo uno sforzo lungo non ore, ma mesi.

Infine, non sto qui a indicare bollettini della viabilità o tabelle di marcia dei gruppi che si muoveranno domani e domenica. Trovate tutto su “San” Google, basta un pochina di buona volontà, senza accusare poi questo o quello di non aver informato, comunicato, pubblicizzato…

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Laerte

Le parole, questa volta, scorrono difficilmente. Proprio non ci sono. Anche perché ne sto leggendo, tante e belle. Probabilmente molto più belle di quelle che saprei esprimere io, che l’ho solo “sfiorato” nella mia vita, apprezzandone, certo, tutto quello che, in tanti, tantissimi, in queste ore, ricordano e si porteranno nel cuore.

Lo vorrei ricordare solo con la mia piccola esperienza con lui. Era il 2016, sembra passato un secolo per quanta acqua è passata sotto i ponti e quante storie sono nate, cresciute, finite, iniziate e ripartite. Per vicissitudini varie e situazioni anche non dipendenti da noi, con Laerte e un manipolo di temerari e temerarie ci trovammo a mettere in piedi, in poco tempo, il palinsesto di Siena Tv per i due Palii. Detta così sembra cosa da poco, ma per una televisione locale creare quasi sedici ore di diretta continua per quattro-cinque giorni non è uno scherzo. Metteteci sopra che era la nostra “prima volta” o, meglio, lo era dovendo essere direttamente responsabili di quello che poi sarebbe andato in onda.

Fu un’esperienza incredibile, durissima e per certi versi esaltante. Penso che ingrassammo di cinque chili a Palio, perché mangiavamo a caso e dormivamo pochissimo, qualche volta anche sotto il Tartarugone, forse quattro ore a notte. Senza contare i lunghi pomeriggi nel garage di Strada dei Tufi nel caldo torrido di quel 2016 per capire, preparare, confrontarci, scontrarci fra una birra ghiacciata e una salsiccia. Tante risate, qualche scazzo, tanti problemi, qualcuno risolto, qualcuno no. Per me fu una bella crescita professionale, anche in mezzo a mille questioni. Nella mia Contrada stetti pochissimo, tanto era l’impegno di tornare in Piazza del Mercato e anche Laerte, se non ricordo male, si concesse un solo pomeriggio in Tartuca. Lui si cimentò come autore e andò benissimo, anche se alla fine facemmo tutti un po’ di tutto, tanto che ricordo lui finì anche per fare l’assistente allo studio durante qualche mia trasmissione.

Alcune cose andarono bene, altre meno bene, com’è normale in esperienze praticamente del tutto nuove, ma è innegabile che tutto quello che nacque allora, che certo traeva ispirazione da ciò che era stato fatto negli anni precedenti, gettò il seme di quello che poi è nato negli anni successivi e vive tutt’ora.

Ci apprezzammo a vicenda (tanto che mi chiese e io accettai con entusiasmo di scrivere anche qualcosa per questo blog) fin lì ci eravamo conosciuti per il Siena calcio o per la Contrada e poco altro. Mi basta scrivere questo, perché il resto mi appaiono, in queste ore, solo parole vuote, miste a lacrime che ricaccio all’indietro, pensando a lui, a Lorenzo, alla famiglia e ai suoi amici.

Porterò nel cuore, con lui, quella estate così dura e così esaltante.

Così come mi sforzerò anche nel suo ricordo di tornare a far vivere più spesso questo blog.

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27 gennaio

Ogni anno, in questa data, quella del “Giorno della Memoria”, mi passano nella mente le immagini di quel viaggio ad Auschwitz e Birkenau, quel lungo, interminabile, orizzonte dove la sofferenza ha avuto la sua dimora assoluta.

E’ un numero, una data, una ricorrenza. Un simbolo. Certo, un ricordo, quello della Shoah, ma che dovrebbe, condizionale come sempre d’obbligo, essere allargato per gli altri 364 giorni dell’anno (365 quest’anno) a tutti i conflitti e i dolori universali, in ogni parte del globo. Purtroppo quello che il mondo ha vissuto negli anni è stata solo una lezione parziale, che ogni volta proviamo a imparare il 27 gennaio, ma che purtroppo, poi, ci scordiamo altrettanto facilmente. Non sono, quelle odierne, ore inutili, non sono ore sprecate. Ma siamo noi a non doverle gettare nel cestino, quando domani, sarà il 28 gennaio.

Il mio consiglio, se mi è permesso, è, come al solito, viaggiare: andare in quei posti, respirare, purtroppo, la morte. Anche solo immaginarsi l’insofferenza indicibile di chi, suo malgrado, quei posti li ha frequentati, vi ha trovato la morte, vi ha conosciuto il terreno. Quello quotidiano, ora dopo ora, minuto dopo minuto, passato pensando a come poter vivere quello successivo.

Ogni persecuzione non dovrebbe avere parte o colore. Dovrebbe essere perseguita a sua volta, annullata, distrutta. Eppure non è così, l’uomo non riesce a imparare a vivere senza ammazzare. Quel vento non si posa, ancora. E, a volte, il posto della speranza è preso dallo sconforto, se è vero che di fronte al tragico passato si presenta un futuro ancor più drammatico.

Eppure dobbiamo conservarla quella speranza, proprio attraverso questo e altri ricordi. Affinché per chi verrà dopo di noi, ma anche per noi stessi, ci sia la possibilità di vivere anche un minuto senza sofferenza.

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Iniziamo dalla fine, ancora

Di fare resoconti e bilanci ho avuto sempre poca voglia. Non perché non sappia riconoscere cosa sia accaduto, ma perché, semplicemente, credo sia tempo sprecato rendicontare il giusto o l’errore in una tabella matematica. O, meglio, tracciare una riga su quello che è stato o quello che non è stato è senz’altro utile, ma perché farlo alla “fine dell’anno” e, invece, non farlo alla fine di qualcosa d’altro? Di un giorno, di un minuto, di un’ora, di un tempo, di un secondo. E, alla fine (per l’appunto), chi stabilisce quale sia la fine e quale sia l’inizio?

Battiti del cuore. Tanti. Di speranze, di paure, di gioie, di passione, di qualche amarezza. C’è una data, certo, un battito fra i battiti. Convinto che sia “solo” una parte di un percorso, costruito da una parte, tutto da costruire, ancora, dall’altra.

Insomma, ho avuto delle paure. Ho avuto delle gioie. Come al solito, ci sono stati momenti intensi in questi trecentosessantacinque giorni di giro di ruota. Giorni che ricorderò. Per sempre. Voluti e conquistati, accompagnati. Miei. Lacrime di gioia. Di tristezza. Di paura. Di alti e di bassi, di pensieri scuri e di esaltazioni precoci, di risate immense e di depressioni, più o meno nascoste negli sgabuzzi della mia mente, della “stanza piena di gente” che sono o, semplicemente, dell’animale che mi porto dentro. Un percorso: faticoso, a volte, esaltante, altre volte, parallelo, altre volte ancora, perché affrontato sempre con la consapevolezza di dare tutto me stesso; con le persone che ho accanto, negli inciampi e negli sgambetti, negli errori fatti e in quelli subiti, mai con la doppiezza nel cuore, sempre con la consapevolezza di essere quello che sono, con qualche pregio e qualche difetto. Fra i silenzi immensi e profondi, le chiacchiere al vento, alla luna, alle stelle, al cielo d’Africa e al mare blu.

Avventure. Affrontate. Scritte e concluse, riprese e mai finite. All’amore, al sogno, a quello che sono, a quello che sarò. A chi lo sarà con me.

Di tutto questo dico (anche) grazie. A chi c’è, a chi c’è stato, a chi ci sarà. Nonostante me. Io ci sarò. Anche domani.

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Approfondire le carte

Approfondire le carte. Sembrerebbe un assioma, una banalità di quelle che dovrebbero essere insegnate nelle scuole (di giornalismo e non solo), eppure quello che accade oggi – ne ho ragionato altre volte – è tutto l’opposto.

Ci si abbandona all’ignoranza. E’ più semplice, meno faticoso, anche quando atti, documenti, scritti e libri sono ormai a disposizione e alla portata (anche economica) di tutti, o quasi. E’ incredibile come il (presunto) allargamento della democrazia derivato dal fansmagorico mondo dei social abbia avuto una causa direttamente inversa: l’addio dell’approfondimento, il benservito alla lettura, il goodbye all’analisi.

Certo la tendenza in qualche modo è partita con la televisione dell’era moderna e quello che alcuni chiamano lo show time, il “tutto quanto fa spettacolo”; anche l’informazione, con la nascita e la crescita di alcune trasmissioni cult, che non si capisce bene se facciano (appunto) comicità, avanspettacolo o giornalismo. Colpa anche del giornalismo stesso, s’intende, e del suo piegarsi a seconda del vento.

Mi stupisce, però, di più l’atteggiamento del “popolo” (ino). Che prende per buono quello che viene vergato adesso qui e ora là, pur avendo a disposizione tutti gli strumenti, financo gli atti processuali o di indagine, tanto per citare qualcosa. Certo, leggere migliaia di pagina non è semplice, ma esistono libri che riassumono scientificamente tutto o ne esisteranno a breve su altre vicende. Ci sono anche strumenti tecniologici più smart, come i podcast, comodi da ascoltare in qualunque momento. Perché non ritagliarsi qualche tempo e – solo dopo – vergare il proprio pensiero sui social? Perché costa fatica.

Ps: ogni riferimento a fatti, cose e persone è puramente casuale…oppure no?

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E’ il calcio, bellezza (ma anche no)

Il calcio ha la memoria corta. A pagare sono gli allenatori. Più semplice mandare via un allenatore che dieci giocatori. Serve una scossa. E via dicendo, tutta una serie di stereotipi, più o meno veritieri, che mi sono venuti in mente quando ho letto dell’esonero di Michele Mignani (qui) dalla panchina del Bari.

Al di là dell’affetto (per quanto compiuto dentro e fuori dal campo in città) e della stima (per professione e competenza) per l’ex capitano e allenatore della Robur, mi ha colpito l’ingratitudine. Mignani al primo colpo ha portato il Bari in serie B dopo gli anni di caduta (fallimento nel 2018) e tentativi andati a vuoto, anche con la nuova proprietà della Filmauro (leggi: De Laurentis). In una piazza complicata, con pressioni di un certo tipo e che definire “calda” significherebbe pescare dagli stereotipi di cui sopra.

Certo, l’andamento della squadra in questo inizio di stagione non è stato dei migliori, ma in pochi sottolineano che la squadra che ha perso la serie A per un minuto lo scorso anno è stata di fatto smantellata. Insomma, un po’ come avviene nella società “civile”: poco equilibrio, va avanti la filosofia social del tutto e subito, o quasi.

Del resto, a Siena non siamo da meno. Abbiamo contestato Mignani, ma se andiamo indietro nel tempo non abbiamo risparmiato Lippi e Conte e se andiamo più avanti abbiamo cacciato a pedate Gilardino (in piena zona play off in C), poi vincente con il Genoa da subentrato.

Capisco che, tanto per utilizzare anche io i suddetti luoghi comuni, il calcio dipenda soprattutto dai risultati, ma un minimo di costruzione e di lungimiranza, pur con un occhio alla classifica, non guasterebbero. Non credo che il Bari potesse incorrere in pericoli di sorta se avesse aspettato i frutti del alvoro di Mignani (e Vergassola). Tant’è.

Ps: sul blog sono in “cottura” alcuni articoli, fra il personale e la materia giornalistica. Abbiate fede e pazienza…

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“Se Fassino vuole fare a cambio”: oppure no?

A volte credo che la cosidetta sinistra (o quel che ne rimane, direbbe qualcuno), sia afflitta dal tafazzismo esasperato, oppure, semplicemente, non abbia grandi consiglieri fra gli esperti di comunicazione. Dalle lande pugliesi ho ascoltato l’intervento in Aula di Piero Fassino che ci ha aggiornato sullo stipendio mensile di un parlamentare: 4.718 euro netti. Il Sole 24 Ore ha ricostruito qui la vicenda, anche per chi volesse davvero capire quanto guadagna un eletto. Edulcorando, dunque, la questione da qualsiasi appartenza politica.

Innegabile, il mio primo pensiero è stato “Se vuole fare a cambio…”. Intendiamoci: mi ritengo al momento fortunato. Ho uno stipendio fisso (non sto qui a dare i numeri, gli stipendi sono da contratto nazionale e quindi pubblici) e rispetto al passato da partita Iva non ho niente da dire (anche qui si potrebbe aprire un capitolo a parte, ma lasciamo stare…). Sinceramente, però, sparare quella cifra a reti unificate o quasi, rispetto a una media italiana che è meno della metà mi lascia un attimo perplesso. Per usare un eufemismo.

Certo, se vogliamo financo filosofeggiare, non so quanto la definizione “stipendio d’oro” possa essere equiparata ai suddetti quattromila e passa euro al mese. Se fossimo in un periodo di estrema chiarezza politica, probabilmente l’onorevole Fassino avrebbe addirittura ragione, con tutti i se e i ma del caso. Tuttavia un politico navigato e di professione come lui dovrebbe capire che sbandierare un cedolino del genere in Parlamento è un po’ l’antitesti del farsi ben volere. Oltretutto da sinistra.

Non facciamo, però, demagogia spicciola che scivola nell’anti-politica. Come ho avuto modo di ripetere tante volte, il problema non è la politica, ma la mala-politica. Rispetto enormemente il lavoro dei parlamentari, sia chiaro: chi lo fa con dedizione ha responsabilità e ha tanta attività da portare avanti, a volte anche troppa; poi ci sono quelli che, invece, vanno a Roma a gozzovigliare, a fare presenza (forse), a spingere un tasto o giù di lì: ma pure questa è un’altra storia.

E basta rileggere il blog, ad esempio, per capire cosa pensassi del “taglio” di senatori e deputati, secondo l’umile parere dello scrivente arrivato sull’onda del taglio delle amministrazioni provinciali di renziana memoria (i risultati sono sotto gli occhi di tutti, oltrettuto forse si tornerà indietro) e di una certa anti-politica miope. Fra le loro importanti funzioni i parlamentari hanno quella di rappresentare il territorio di riferimento, in sostanza provare a portare a Roma le istanze dei cittadini che li hanno eletti. Già prima era difficile, per fare un esempio del territorio senese, riuscire a raccogliere tutte le esigenze, figuriamoci adesso che colui o coloro che sono eletti da queste parti dovrebbero riuscire a mettere insieme quelle, metro quadrato più metro quadrato meno, che vanno da Arezzo, passano da Siena e arrivano a Grosseto.

Fassino voleva aprire una discussione seria su remunerazioni, politica e via dicendo? Bene, diciamo che quantomeno ha sbagliato tempi e modi. Di questi tempi, ha sbagliato parecchio.

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Il problema di Elkann non sono (solo) i giovani, ma la grammatica

Ho letto con curiosità (la mattina stessa della sua uscita) l’articolo vergato su “Repubblica” da Alain Elkann. Tralascio ogni commento sul perché il giornale di Exor dovesse ospitare un articolo del padre del padrone, l’Ita(g)lia è questa. Ci sarebbe di che dire, ma mi fermo.

Potrei tralasciare anche qualcosa sul contenuto, eccessivamente classista rispetto a una realtà che pur andrebbe affrontata, ma non certo con un “pezzo” cosi odorante di radical chic o, peggio, puzzolente di separazione sociale quasi in stile segregazione Usa. Se le giovani generazioni di oggi hanno qualche passaggio a vuoto dal punto di vista culturale (e sottolineo il “se”, visto che non sono un Crepet in grado di giudicare), tali vuoti andrebbero colmati non certo attraverso delle ramanzine sparate dall’alto di una pseudo cattedra di chi non ha mai avuto problemi ad arrivare a fine mese, a studiare nelle miglioni università o, per dirla alla maniera popolare, ha avuto sempre un bel piatto di pappa scodellato e riscaldato. Bensì attraverso un’attenta analisi sociale e sociologica, sempre a rischio di caduta in quella divisione sociale per cui il “matusa” narra dei bei tempi che furono, scordandosi che quei tempi erano belli perché egli aveva quaranta anni di meno e non perché si stesse necessariamente meglio. Mi viene in mente sempre la frase che, nella mia città, qualcuno verga in mezzo a una qualsiasi discussione: “A Siena si lasciava la chiave nella toppa”, alla quale mi diverto ormai sempre a rispondere: “Ci credo, non c’era niente da rubare, nella speranza (vana) che qualcuno rifletta sul sopracitato “tempo che fu”.

La questione è che Elkann non ha dimostrato solo qualche piccolo problemino di rapporti sociali. Ha dimostrato di non conoscere la grammatica. Cosa che non è (lo ammetto) facile avere nel proprio bagaglio culturale, in ogni sua piega e perfino cavillo: anche il sottoscritto ogni tanto (spesso) annaspa e si deve fermare a capire la consecutio di una frase. Conoscere il giusto posizionamento delle virgole, tuttavia, è un po’ come saper scrivere, quando ci vuole, “ha” con l’ “h”. Da Elkann non ci si aspetterebbe, ordunque. Del resto, però, il mondo (del giornalismo) è pieno di chi crede di essere la reincarnazione di Montanelli e invece, come a volte mi diverto a ripetere, alle Badesse non sanno manco chi sia.

I giovani non lo hanno salutato alla sua uscita dal convoglio, ahimé. Ce ne faremo una ragione. Sarebbe stato simpatico lo avessero salutato con un presente: un manuale di grammatica. Certo, sarebbe stato altrettanto simpatico se Elkann avesse utilizzato le colonne del “suo” giornale (o, comunque, di quello di famiglia) per descrivere, in maniera più simpatica e meno autoritaria, una scena a cui molti di noi sono abituati. Uno dei problemi del “potere” è (forse) questo: si usa come una clava.

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Purgatori, un grande del giornalismo (e uno scambio di messaggi)

Una brutta notizia per il giornalismo (qui) la scomparsa di Andrea Purgatori. L’ho apprezzato come professionista, come sceneggiatore e autore e ultimamente lo seguivo con grande interesse su La7: il caso Orlandi, il mostro di Firenze e tanto altro nella sua “Atlantide”. Il primo apprezzamento, per la verità, su per “Il muro di gomma”, film sul caso Ustica, scritto da Purgatori con altri autori: del resto quello del 27 giugno 1980 è stato un giallo a cui il giornalista ha lavorato tantissimo, forse più di tutti, anche ultimamente con una approfondita puntata della stessa “Atlantide”.

Il giornalismo odierno (e quello italiano, soprattutto) è un marasma intriso di politica e di giudizi di parte, di mancanza di competenze e di criticità che tutti giudicano, ma nessuno vuole affrontare. Un dialogo fra sordi, che certo questo blog e questo post non possono esaminare e soprattutto risolvere. Sul giornalista scomparso mi limito, dunque, a dire che la sua chiarezza e il suo livello di cultura, uniti alla capacità di approfondire con inchieste giornalistiche appropiate, erano poco comparabili con altri professionisti attuali. Non ho le conoscenze (e le competenze) per dire molto altro: mi limito a “giudicare” (si fa per dire) da umile (ex) cronista di provincia. Sicuramente qualcuno dirà, conoscendo il popolo tricolore, che era troppo comunista o troppo fascista.

Ricordo, però, che ormai molti anni fa ebbi un bello scambio di messaggi con Purgatori, che sono riuscito a ritrovare e che conservo con gelosia da allora. Erano i giorni successivi al mio esame da giornalista professionista, ormai molto in là nel tempo. “Ti volevo fare i complimenti per preparazione all’esame e sono completamente d’accordo con te sulla questione camuffamento-giornalismo. Purtroppo il sistema dei media italiano è un tale groviglio che Striscia la Notizia, le Iene e compagnia sono più legittimate di “noi” giornalisti. Senza contare che, con tutto il rispetto, ho appena fatto un esame in cui non si è quasi mai minimamente parlato di precariato, difesa dei free – lance e compagnia bella, anzi brutta. Saluti e scusa dello sfogo”. La risposta fu immediata e mi sorprese anche per la tem,pistica così ridotta (“Figurati – ricordo che pensai – se ha il tempo e la voglia di rispondere a un neo professionistica di periferia”). “Ce ne vorrebbero di sfoghi così. se hai tempo e voglia vatti a vedere al cinema Fortapasc, che ho scritto per Marco Risi. lì c’è una tirata sui giornalisti-impiegati che ti piacerà. Un abbraccio e grazie. Non mollare, eh…”.

Prendo in prestito (mi perdonerà) il commento su Facebook della collega (mi perdonerà anche questo) Rosamaria Aquino, più brava di me a dipingere un quadro con le parole: “Non dimenticherò mai a Fiuggi, nel corso propedeutico all’esame di Stato (2009 o giù di lì) la sua lezione, decisamente fuori dagli schemi…. Quasi una sorta di sfogo che ci lascio’ a bocca aperta. Cosa era diventato il giornalismo, cosa gli editori, quali i loro veri interessi in campo (quasi sempre fuori dall’editoria pura) e quindi quale libertà per chi faceva inchiesta, per chi voleva solo dare le notizie, onestamente, tanto da fargli dire: sono molto più libero oggi che scrivo fiction che non in un giornale. Silenzio. Facevo questo lavoro da pochi anni, in una redazione locale e mi stupì che le stesse dinamiche succedessero a livello nazionale. Ragazzi più o meno giovani ti guardavano attoniti, ma non eravamo lì per dire che il giornalismo era la chiave per la verità? Proprio tu che sei il simbolo dell’inchiesta su Ustica sei così disilluso? E invece ci avevi dato una grande lezione, su quello che avremmo vissuto dopo quell’esame, nelle redazioni. Anche se la lezione più grande è stata vederti essere e fare ancora il giornalista, nonostante tutto. Ciao”.

Io non ho mollato (o forse si…), ma da allora è cambiato poco. E quel poco è cambiato in peggio.

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